Un antico diglio di mamma è chiamato a combattere
«Quello disse: à‚«Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto‚»» (Genesi 32:28).
Ogni volta che leggo della lotta di Giacobbe con Dio nel letto del fiume, mi ricordo di una taverna male illuminata nella piccola cittadina di Saltillo, in Messico, e di un uomo anziano ma vigoroso e dalle spalle larghe che stava seduto dall’altro lato del mio tavolo. Io allora ero un insegnante di liceo che studiava spagnolo durante l’estate, e che usciva in città la sera.
Manuel, questo disse era il suo nome; e aggiunse di essere stato un pugile »€œ solo per un breve periodo, anni prima, quando aveva più o meno la mia età . Io annuii con piacere, e mentre cominciavo a provare con lui le mie ultime lezioni di spagnolo, egli improvvisamente si chinò in avanti, piantò un gomito proprio nel mezzo del nostro piccolo tavolino di legno, mi guardò negli occhi e aprà ¬ una mano spessa e muscolosa »€œ un chiaro invito ad una sfida a braccio di ferro. Sorpreso »€œ e un po’ preoccupato »€œ cominciai a spiegare che non avevo mai veramente studiato braccio di ferro all’università , ma quando mi chinai e tentai di chiarire il mio spagnolo stentato accompagnandolo con un gesto, prima che me ne accorgessi lui aveva afferrato la mia mano nella sua grande morsa e mi stava facendo un cenno.
Lasciando perdere lo spagnolo, feci un respiro profondo e mi buttai a capofitto, lottando. Le bottiglie tremarono, i bicchieri tintinnarono e in un attimo la mia mano finà ¬ al tappeto. Rimasi là ¬ seduto, senza fiato, e lui mi lasciò andare. «Ho lasciato la boxe molto presto» dichiarò Manuel, tenendo le sue mani dritte davanti a lui e allargando le dita. Sono diventato un lottatore». Piegò le dita come per afferrare qualcosa, e disse: «Non mi piace stare cosà ¬ lontano, come fa il pugile. Mi piace mettere le dita sulla carne e toccare le ossa».
In modo simile, nel racconto biblico di Giacobbe abbiamo un altro inverosimile match, con un Dio che ama anch’Egli mettere le mani sulla carne e toccare le ossa. È un match inverosimile semplicemente perché Giacobbe non è il lottatore tipo. Vediamo questo nel netto contrasto che il narratore biblico traccia fra Giacobbe e il suo rude e forzuto fratello, Esaù: «Quando venne per lei [Rebecca] il tempo di partorire, ecco che lei aveva due gemelli nel grembo. Il primo che nacque era rosso e peloso come un mantello di pelo. Cosà ¬ fu chiamato Esaù. Dopo nacque suo fratello, che con la mano teneva il calcagno di Esaù e fu chiamato Giacobbe» (Genesi 25:24»€œ26).
Nell’antica cultura ebraica, il nome di un uomo portava la sua vera essenza ed identità . Nessun genitore ebreo sceglieva il nome del figlio semplicemente perché suonava carino, ma piuttosto perché quel nome si adattava al bambino. Cosà ¬, il nome Esaù significa »Ëœcoperto’, che descrive il corpo peloso del bambino. Il nome Giacobbe invece significa »Ëœcolui che afferra da dietro’ »€œ vale a dire, »Ëœl’imbroglione’, »Ëœcolui che farà di tutto per impedire che qualcuno gli passi davanti’. Giacobbe voleva essere lui il primogenito, per ottenere la benedizione e l’eredità di suo padre; afferrava Esaù per tirarlo indietro, in modo che Giacobbe stesso potesse uscire per primo dalla madre. Nel gergo del football, Giacobbe sarebbe stato »Ëœammonito per aver trattenuto’ il compagno, dato che un gioco onesto richiede che uno guardi l’avversario negli occhi prima di bloccarlo.
E cosà ¬, fin dal primo giorno della sua vita, vediamo che Giacobbe si comporta da furbacchione »€œ portando un nome ebraico che apparentemente lo bolla per sempre come il genere di persona viscida che »Ëœti afferra da dietro’. «I due bambini crebbero», leggiamo, «Esaù divenne un esperto cacciatore, un uomo di campagna, e Giacobbe un uomo tranquillo che se ne stava nelle tende» (Genesi 25:27). No, Giacobbe non stava fuori nei campi con i suoi muscoli e il cuoio grezzo e gli animali selvaggi e gli altri uomini, crescendo forte e sicuro di sé. Giacobbe preferiva la vita più sicura e comoda della casa. Chiaramente, questo lo rese il favorito di sua madre, la quale più tardi complottò il furto della benedizione del padre per Giacobbe. Fondamentalmente, Giacobbe era un »Ëœfiglio di mamma’ »€œ almeno fino a quella strana e intensa notte nel letto di un fiume, quando la vita di Giacobbe prese una piega completamente nuova.
Quella notte, stava fuggendo con alle calcagna il furioso zio Labano, che lui aveva appena imbrogliato per portargli via un intero gregge di pecore. Davanti a lui, lo aspettava l’incontro con il furioso fratello Esaù, che aveva imbrogliato portandogli via la primogenitura. E cosà ¬, più tardi quella sera, l’imbroglione, bugiardo, connivente uomo che »Ëœafferra da dietro’ manda avanti la sua famiglia al campo, e scende da solo al letto del fiume. Qui, un uomo che più tardi si identifica come mandato da Dio, si fa avanti e sfida Giacobbe. A questo punto, potremmo pensare che un Dio gentile e premuroso e comprensivo avrebbe incontrato Giacobbe in un ambiente nel quale lui si sentisse a proprio agio: forse, Dio avrebbe potuto creare improvvisamente qualche tenda attorno a Giacobbe, con delle sdraio e qualche altro comfort, per farlo sentire più a casa sua. Ma no. Quello non è il genere di Dio che stiamo ascoltando qui. «Giacobbe rimase solo», leggiamo, «e un uomo lottò con lui fino all’apparire dell’alba» (32:24).
Un incontro di lotta! Corpo a corpo, dita sulla carne, ossa toccate! Che strano, sporco scherzetto Dio tira a questo povero ragazzo! Un incontro di lotta fra il Dio onnipotente, che può muovere le montagne e distruggere eserciti, e il ragazzo che si nascondeva nelle tende con sua mamma mentre suo fratello era fuori a cacciare per la cena. «Colui che afferra da dietro», che lotta faccia a faccia con Dio! Quello che stava a casa fra le tende ora lotta all’aperto, da solo, con Dio!
Ancora più strano, leggiamo che Giacobbe riesce ad afferrare Dio »€œ a bloccargli il braccio, forse? »€œ e tiene la sua vita in pugno. Allora Dio »€œ con una mossa che farebbe gridare a qualunque lottatore »Ëœfallo!’ »€œ colpisce Giacobbe alla coscia, slogandogli la gamba. Gridando, in preda al dolore, Giacobbe grida alla fine: «Non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto!»
E, naturalmente, la benedizione arriva. E che benedizione! «Qual è il tuo nome?», domanda Dio. E, ricordando la tradizione ebraica riguardo ai nomi, la domanda in realtà diventa: «Chi sei tu?»
Mentre si attacca alla vita con tutte le sue forze e risponde: «Sono Giacobbe, quello che afferra da dietro, l’imbroglione, il truffatore, il bugiardo, il figlio di mamma spaventato» »€œ allora l’assalitore spirituale proclama: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 28).
Giacobbe riceve un nuovo nome! E non semplicemente un’etichetta sul barattolo, ma un barattolo completamente nuovo, una nuova persona, una trasformazione. Non è più l’imbroglione, il perdente; ora è Israele »€œ che significa »Ëœlottatore con Dio’ »€œ e cioè, il vincitore della sfida.
Dio ha toccato Giacobbe all’osso, nella vera essenza della sua personalità . E cosà ¬, questa storia ci parla ancora oggi »€œ in modo che il Dio di amore ci tocchi e ci scuota nel centro stesso della nostra identità , prima di benedirci con una nuova vita. Perché se davvero Dio è l’amore dal quale noi esseri umani siamo creati, e l’amore che proviamo per gli altri e che desideriamo dagli altri, allora quelli che hanno amato qualcuno sanno che l’amore richiede sempre una lotta. E la lotta per l’amore è contro il Giacobbe che è in noi.
La storia di Giacobbe dice che prima di poter amare qualcun altro, o essere amato da qualcuno, devi combattere con quella parte di te stesso che si spaventa quando l’amore comincia a rompere le tue difese. È la parte che vorrebbe subito mettere un lucchetto all’amore e obbligare altre persone ad essere ciò che vogliamo che siano, per prendere da loro quello che vogliamo. È quella parte di noi che è determinata a salvare la faccia e stare sulla cresta, indipendentemente da quanto gravemente feriamo il prossimo; la parte che, prima o poi, comincia ad imbrogliare e a manipolare le persone a cui teniamo di più.
E in questa storia delle origini di Israele, di come il popolo di Dio è stato modellato, vediamo che lo Spirito di Dio Padre non è una bacchetta magica che ci trasporta in un baleno in un mondo di lune di miele e di successi immediati. Piuttosto, il Dio Padre dell’amore affronta ciascun uomo nella profonda gola del letto del fiume delle sue tenebre più profonde, da qualche parte fra le sue disonestà egocentriche e la verità . E quando il Padre ha finito con lui, Egli lascia l’uomo dolorante e zoppicante per quella verità che da sola può restaurarlo alla sua piena e originaria identità .
Questo perché la buona notizia, che tutti noi uomini oggi bramiamo, giunge solo nell’iniziazione terrificante e dolorosa della croce, nella quale noi moriamo alla nostra orgogliosa identità naturale e risorgiamo nuovamente come figli di Dio Padre. La buona notizia, infatti, è di poter sentire la presa di Dio sulla tua carne, gridare il tuo nome in tutta la sua indegna natura, sentire il dolore fin nelle ossa, ricevere la benedizione della novità quando molli la presa e, infine, seguire.
Che possiamo essere cosà ¬ benedetti.
Gordon Dalbey
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